mercoledì 28 marzo 2012

La Fine e la Luce

Il viaggio nella fantascienza, dall’ultimo post pubblicato, ha subito una brusca battuta d’arresto. Si è tornati alla scienza, e a dire il vero non è stato un romanzo fantastico ispirato all’Enterprise, ma una precisa serie di messaggi e di illuminazioni che non potevo (e sentivo di non poter tenere) solo per me e, grazie alla Rete, ho provato a divulgare a tutti sperando che un qualche “cybernauta” avesse potuto trarne spunto costruttivo.

Si… Kirk ha deciso di fermarsi… E’ stanco di gridare nel deserto delle idee (che il più grande ed il più desolato che possa esistere…). Forse continuerà con esempi concreti ed allegorie, com’era (e com’è) suo proposito, ma non prima d’aver lanciato il suo ultimo messaggio all’Umanità intera… Non prima d’aver squarciato, a suo modo, le tenebre costituite da una grande bugia: l’economia del mondo c.d. “avanzato”

Fisica ed Economia sembrano mondi dissimili ed inconciliabili, il primo cerca di comprendere “cosa la Natura ci dice”, il secondo sembra prodigarsi nella costruzione d’un benessere duraturo per una nazione e, solo nei più alti ed illuminati suoi rappresentanti, per l’intero Genere Umano.

Eppure, non è così…  I suddetti mondi sono più vicini di quanto si pensi perché il secondo non può che obbedire alle ferree leggi del primo e perché l’ambiente su cui lavorano nei rispettivi ambiti coincide: la Terra ed il suo delicato equilibrio!...

Sin da quando ha cominciato a costruire attrezzi, approfittando del suo grande cervello e delle sue mani libere, l’Uomo ha cominciato a piegare la Natura ai suoi voleri, cercando di affrancarsi dalla fatica, dalla fame, dal freddo e da tutte le insidie ambientali. Cominciò da cacciatore, poi divenne agricoltore, allevatore, costruttore. Nel frattempo la sua intelligenza cresceva e cominciò a capire sempre più profondamente che la Natura gli forniva ulteriori energie per essere ancor più libero dalla fatica, dalla fame, dal freddo e dalle insidie ambientali… Scoprì il fuoco, la metallurgia, la muratura e le sue potenzialità costruttive crebbero… Costruì macchine per affrancarsi dalla fatica fisica e le perfezionò di giorno in giorno… Divenne capace di pensiero simbolico e da quel momento, in un crescendo quasi esponenziale soddisfò i suoi bisogni primari e puntò a soddisfare quelli secondari (o “voluttuari” che dir si voglia)… Divenne “Re della Terra” e in questo progressivo liberarsi da schiavitù perse il contatto con la sua unica astronave: la Terra stessa…

Questa perdita di contatto è ascrivibile al fatto che, ad un certo punto della sua storia, il Genere Umano iniziò a disporre di fonti d’energia che gli sembrarono inesauribili (carbone, petrolio, materiale fissile per l’energia nucleare) e gli attribuì un valore economico… Fu un periodo di grande crescita che ebbe inizio con la “Rivoluzione Industriale” per arrivare sino ai giorni nostri, dove, a partire dalla profonda crisi del 1929, iniziammo a comprendere che c’era qualcosa di profondamente sbagliato e qualcuno cominciò a pensare… Il denaro, forse, poteva comprare tutto, ma non poteva creare dal nulla risorse esaurite! Il 1929 fu la prima, durissima, lezione che il Genere Umano subì: il valore economico del dollaro era stato completamente divorato da un eccesso di liberismo, ne seguirono fallimenti a catena e la presa di coscienza che bisognava “cadere” e “ricostruire”… La moneta non generava ricchezza da sola, senza una propensione al risparmio e senza essere collegata a beni reali e durevoli che rappresentassero concretamente la sua “stabilità di valore”… Il mondo ripartì con nuove regole che garantirono benessere per quasi ottant’anni… Sino ad oggi, sino al 2008, quando un’altra profonda crisi s’è profilata all’orizzonte e stavolta vestita anche di danni ambientali dovuti all’azione antropica.

Se nel 1929 il problema fu quello d’aver attribuito alla moneta poteri che non erano suoi, adesso il problema è diverso: non solo le potenzialità della moneta sono giunte al secondo culmine (anche adesso, come allora, non genera ricchezza da sola), ma l’Economia si è scontrata con la Fisica: questo concetto sembra appannaggio della mente d’un folle, ma, ahimè, quello che verrà dopo rappresenta la nuda e cruda realtà che ci impone di compiere un’indifferibile svolta d’approccio.

In Natura non esiste alcuna trasformazione che non consumi, in modo irreversibile, una certa quantità d’energia. E’ il cosiddetto “Secondo Principio”, per il quale “L’entropia (o disordine) dell’Universo non può mai diminuire”.

Condizioni speciali, come è avvenuto sulla Terra, possono rallentare la suddetta tendenza, creando ambienti più o meno organizzati che, nelle loro espressioni più alte, assumono l’aspetto di sistemi viventi nei quali appaiono intelligenze e civiltà, ma il tutto resta scandito dall’inesorabile ritmo del “Secondo Principio” e dai suoi tempi, più o meno lunghi, di transizione al disordine.

Sembra un messaggio apocalittico, ma non ci sarebbe da preoccuparsi per l’immediato futuro: da quanto recitano profonde equazioni, il sistema sarebbe stato “programmato” per sopravvivere molti anni, a meno di non introdurre in lui aumenti d’entropia troppo vertiginosi e, proprio per questo, caotici e incontrollabili a livello profondo.

Purtroppo, sembra proprio quello che sta accadendo e l’economia basata sulle attuali regole, pare che ci stia mettendo il fatidico “carico da undici”.

La società attuale “trasforma” e “consuma” in un continuo crescendo e da questo meccanismo si trae profitto (la fatidica “crescita”), accumulando moneta in maniera quasi sempre non uniforme tra stati “sovrani”. Ma altri stati si affacciano alla “voglia di benessere”: Cina, India, Sud-Est asiatico, America Latina, Africa e tutti con un inesorabile bisogno d’energia per “trasformare” e “consumare”, stando all’attuale modello di sviluppo. Le risorse fossili, purtroppo, non sono infinite… Contenute nel pianeta Terra sono per ovvia conseguenza limitate ed anche se arrivassimo a sfruttare l’energia da fusione nascosta nell’idrogeno o nel deuterio dei mari (definita da tanti “inesauribile e pulita”), la stessa non potrà non sortire un aumento di temperatura globale, giacché, per l’inesorabile “Secondo Principio”, non esiste fisicamente una macchina perfettamente efficiente… L’idrogeno trasformato in elio genera energia sotto forma di disordinate particelle veloci e, comunque, il bilancio energetico complessivo sarà in perdita, perché due nuclei di deuterio sono più “pesanti” (contengono più energia spendibile) di un nucleo di elio. Di questa differenza, una parte verrà sfruttata, un’altra sarà irrimediabilmente persa come aumento del disordine complessivo (entropia) e nessuna moneta potrà mai rimpiazzare la perdita.

Ecco lo scontro tra Economia e Fisica: il modello del “consumismo infinito” è fisicamente insostenibile sul lungo termine e un nuovo modello di sviluppo dovrà puntare al raggiungimento d’un equilibrio stabile, dove la moneta è solo “merce per comprare altra merce”, senza alcun valore intrinseco, ma solo per rappresentare un “baratto simbolico”. La cosa non piacerà certo agli attuali teorici dell’economia, ma è il giusto epilogo, se si vuol evitare una catastrofica corsa verso l’autodistruzione.

Risorse limitate costano sempre di più man mano che diminuiscono per lo sfruttamento e questo maggior costo intaccherà per prime le propensioni al risparmio, lo stato sociale e la previdenza (pubblica o privata che sia) delle democrazie stabili (del resto, sono le più facili da intaccare, perché ben definite nei quadri normativi dei singoli stati). Anche una risorsa energetica potenzialmente illimitata (l’energia da fusione nucleare), se sfruttata in modo dissennato, porterà ad un aumento dell’entropia (riscaldamento globale) con analoghe ed inesorabili conseguenze distruttive, lo si è quasi matematicamente dimostrato pochi paragrafi fa.

Che fare? Sembra comunque un inevitabile apocalisse, ma a mio avviso siamo ancora in tempo: i semi ci sono e sono rappresentati dal forte sviluppo delle energie rinnovabili e dalla sempre maggior attenzione alle problematiche ambientali, ma il percorso è ancora lungo e, ora come ora, tre cose si profilano all’orizzonte:

·         arginare la corsa dissennata ai consumi: l’esigenza fondamentale è la “sostenibilità”, non la “crescita”, giacché quest’ultima rappresenta il solo (e banale) aumento di valore di monete locali che, prima o poi diverranno inutili (il “consumismo infinito” è fisicamente insostenibile sul lungo termine e l’accrescimento del valore globale della moneta altro non è se non la sua più bieca espressione, anzi, si potrebbe affermare che la crescita del valore globale della moneta è direttamente collegato alla distruttiva crescita di entropia del sistema);
·         sprecare meno, ricorrendo alle enormi potenzialità offerte dalle Reti di comunicazione (Internet è ubiqua ed i server consumano sempre meno energia), dall’Ingegneria, dalla ricerca scientifica e dagli accordi di amicizia e cooperazione tra stati (telematica, telelavoro, automazione della Pubblica Amministrazione, infrastrutture sostenibili, nuovi materiali, programmi di sviluppo sostenibile, scolarizzazione, rispetto reciproco, non belligeranza etc.);
·         puntare sulle fonti rinnovabili d’energia e riscoprire, alla luce delle moderne tecnologie, il grande valore dell’agricoltura, che non è la “sorella povera” dell’industria, ma l’unico modo di produrre ricchezza vera (giacché ottenuta utilizzando i principi costruttivi insiti nelle fonti più rinnovabili e disponibili che esistano, quali Sole, Terra, Aria ed Acqua).

Sono concetti profondi, di respiro non nazionale od europeo, ma mondiale… La sostenibilità non è una esigenza di questa o quella nazione, ma dell’intero pianeta!... Forse è cominciata la fine d’un’epoca che prefigura l’inzio, per tutti, d’un nuovo modo di vivere in pace!...

E’ la Pubblica Amministrazione, con la sua profonda e neutrale etica costruttiva che, piaccia o non piaccia, è in grado di indicare il nuovo percorso ad una Politica e ad un’Economia alquanto disorientate

Kirk è tornato per sempre sulla Terra e lavorerà in tal senso col suo equipaggio di uomini liberi e illuminati!…

venerdì 10 febbraio 2012

Siamo in riserva...

Qui, purtroppo, la fantascienza finisce e si entra nel mondo della scienza e dell'economia. Quello che segue dopo la riga di asterischi è un resoconto (pubblicazione autorizzata) di  James Murray della School of Oceanography dell’Università dello stato di Washington a Seattle (vedi didascalia in fondo al post).

Si, è vero, siamo in riserva: è questa la vera origine della crisi economica globale che ci impone di trovare un modello di sviluppo diverso, in altri termini, UN NUOVO PIANETA basato su regole diverse e più sostenibili. E' indubbio che il Settore Pubblico essendo a diretto contatto (e principale motore) delle politiche di sviluppo non può starsene seduto in poltrona e stare a guardare: IL DENARO PUO' COMPRARE ENERGIA, MA DI CERTO NON LA CREA E L'ECONOMIA CRESCE O SI MANTIENE SE E SOLO SE C'E' ENERGIA DISPONIBILE.

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In molte parti del mondo, e in particolare negli Stati Uniti, un insistente dibattito sulla qualità della scienza del cambiamento climatico e i dubbi sulle dimensioni degli impatti ambientali negativi hanno fatto da remora alle scelte politiche di riduzione della crescita delle emissioni di gas-serra. Ma può esserci una ragione più persuasiva per abbassare le emissioni globali: l’impatto del calo dell’offerta petrolifera sull’economia.

La produzione di combustibili fossili di cui possiamo disporre è minore di quanto molti credano. A partire dal 2005, la produzione convenzionale di petrolio greggio non è cresciuta di pari passo con la crescita della domanda. Noi sosteniamo che il mercato del petrolio è passato a un nuovo e diverso stato, in una di quelle che in fisica si chiamano transizioni di fase: oggi la produzione è «anelastica», incapace cioè di seguire la crescita della domanda, e questo spinge i prezzi a oscillare in modo selvaggio. Le risorse degli altri combustibili fossili non sembrano in grado di colmare il buco.

I ripidi picchi dei prezzi dei combustibili che derivano da questa situazione possono provocare crisi economiche, e hanno contribuito a quella da cui il mondo si sta risollevando. È ben poco probabile che l’economia del futuro sia in grado di sopportare quel che ci riservano i prezzi del petrolio. Solo allontanandoci dai combustibili fossili possiamo, al tempo stesso, assicurare più solide prospettive economiche e affrontare le sfide del cambiamento climatico. È una trasformazione che richiederà interi decenni, ma è necessario che abbia inizio subito.

La produzione di petrolio greggio è cresciuta di pari passo con la domanda dal 1998 al 2005. Ma poi qualcosa è cambiato. La produzione è rimasta grosso modo costante per tutti gli ultimi sette anni, malgrado
un aumento del prezzo di circa il 15 per cento all’anno (considerando il prezzo del Brent sulla piazza di Londra), dai circa 15 dollari al barile del 1998 agli oltre 140 dollari al barile del 2008. Il prezzo continua a riflettere la domanda: è sceso fino a circa 35 dollari al barile nel 2009 grazie alla recessione del 2008-2009, per poi risalire con il miglioramento dell’economia globale fino ai 120 dollari al barile, e ridiscendere al suo attuale valore di 111 dollari. Ma la catena di fornitura non è stata capace di tenere il ritmo della crescita della domanda e dei prezzi.

L’idea di un «picco del petrolio» – che la produzione globale dovesse raggiungere un massimo e poi declinare – è in giro da decenni, con gli accademici impegnati a discutere se fosse già stato superato o se dovesse ancora venire. La tipica risposta degli operatori del settore è far notare la crescita delle stime delle riserve globali – i quantitativi sotterranei noti che possono essere commercialmente prodotti.


La produzione dei campi petroliferi sta declinando in tutto il mondo a tassi compresi tra il 4,5 per cento e il 6,7 per cento all’anno. Ma questi dati sono fuorvianti. Il reale volume delle riserve accertate è oscurato dal segreto; le previsioni delle aziende petrolifere di stato non sono verificate e sembrano essere esagerate. Inoltre, e soprattutto, le riserve richiedono spesso dai 6 ai 10 anni di perforazioni e sviluppo per entrare a far parte dell’offerta, e nel frattempo avrà cominciato a esaurirsi qualche altro campo petrolifero più vecchio. È molto più sensato guardare invece agli andamenti della produzione effettiva, e questi sono meno incoraggianti. Anche se le riserve sono, a quanto pare, in crescita, la percentuale disponibile per la produzione sta scendendo.

Negli Stati Uniti, per esempio, la produzione come percentuale delle riserve è costantemente diminuita dal 9 per cento del 1980 al 6 per cento di oggi. La produzione dei campi petroliferi in tutto il mondo sta declinando a tassi compresi più o meno tra il 4,5 per cento e il 6,7 per cento all’anno. È solo aggiungendo la produzione proveniente da nuovi pozzi che la produzione complessiva mondiale sta riuscendo a restare costante.

La produzione di petrolio ha toccato il tetto
Fino al 2005, la produzione ha seguito la domanda, ma poi è rimasta ferma malgrado l’aumento dei prezzi sia continuato. La linea azzurra indica la produzione, in milioni di barili al giorno; quella in rosso il prezzo del petrolio in dollari USA/barile.

Transizione di fase
Il brusco cambiamento verificatosi nell’economia del petrolio è ben visibile nel diagramma di dispersione prezzi/produzione. Sono evidenziate una fase «elastica» (la produzione è in grado di rispondere alla domanda, modulando i prezzi), un «punto di transizione» e la successiva fase «anelastica» (in cui la produzione non tiene più il passo della domanda, con ampie oscillazioni dei prezzi). L’asse verticale indica i prezzi spot a livello mondiale (dollari USA/barile) e quello orizzontale la produzione di petrolio greggio (milioni di barili di petrolio al giorno).

Nel 2005 la produzione globale di greggio convenzionale ha raggiunto i 72 milioni circa di barili al giorno. Da allora in poi, la capacità produttiva sembra aver raggiunto un tetto al livello di 75 milioni di barili al giorno. Il grafico che mette a confronto prezzi e produzione dal 1988 a oggi mostra questa evidentissima transizione, da un periodo in cui l’offerta era in grado di rispondere elasticamente alla crescita dei prezzi dovuta all’aumento della domanda a un periodo in cui non riesce più a farlo.

Il risultato è che i prezzi oscillano selvaggiamente in risposta a modesti cambiamenti della domanda. Già altri hanno fatto osservare che intorno all’anno 2005 c’è stato questo cambio di passo nell’economia del petrolio, ma questo è un punto che va fermamente inculcato nella mente di tutti coloro che hanno il compito prendere decisioni di ordine politico.

Facile accesso

Non stiamo restando senza petrolio; ma stiamo finendo il petrolio che può essere prodotto con facilità e a basso prezzo. Le proiezioni dell’Energy Information Administration degli Stati Uniti prevedono una crescita del 30 per cento della produzione petrolifera da oggi al 2030. Tutto l’incremento è attribuito a progetti non identificati – petrolio, vale a dire, che ancora deve essere scoperto. Anche se la produzione dei campi già esistenti dovesse miracolosamente smettere di diminuire, un aumento del genere richiederebbe per il 2030 una nuova produzione di 22 milioni di barili al giorno. Se continuerà, realisticamente, un declino del 5 per cento all’anno, avremmo bisogno di nuovi campi petroliferi che diano più di 64 milioni di barili di petrolio al giorno di nuova produzione – una cifra grosso modo equivalente all’intera produzione odierna. A nostro avviso, è molto improbabile che ciò accada.

Non sarà il petrolio non convenzionale a colmare la differenza. La produzione di petrolio a partire dalle sabbie bituminose del Canada – la cosiddetta «ultima dose del petrodipendente» - dovrebbe raggiungere, secondo le attese, appena i 4,7 milioni di barili al giorno per il 2035. Quello ottenuto dalle sabbie bituminose del Venezuela è attualmente meno di 2 milioni di barili al giorno, con ben poche prospettive di spettacolari aumenti.

Molti studi recenti suggeriscono che il carbone disponibile sia meno abbondante di quanto finora dato per assodato. Molti credono che il carbone sarà la soluzione ai nostri problemi energetici, e che rimarrà a buon mercato ancora per decenni. Ma parecchi studi recenti suggeriscono invece che il carbone disponibile è meno abbondante di quanto si sia finora dato per assodato. La produzione di carbone degli Stati Uniti ha toccato il suo massimo nel 2002, e la produzione mondiale di energia da carbone, secondo le proiezioni, dovrebbe toccare il suo acme già nel 2025.

A ogni aggiornamento delle cifre delle riserve di carbone, le stime sono in genere riviste al ribasso: l’ammontare stimato delle riserve mondiali (che per il 79 per cento sono detenute da Stati Uniti, Russia, India, Cina, Australia e Sud Africa) è stato ridotto di più del 50 per cento nel 2005, al livello di 861 gigatonnellate (miliardi di tonnellate). Il relativo studio poneva la produzione finale di carbone (il quantitativo totale che l’umanità sarà in grado di estrarre dal suolo) a 1163 gigatonnellate. Una stima indipendente della produzione finale formulata nel 2011 è arrivata a un valore di sole 680 gigatonnellate, del 40 per cento più bassa del valore stimato nel 2005 e circa cinque volte inferiore a quanto era stato assunto in alcuni precedenti scenari ad altro consumo di carbone dell’IPCC (l’organismo dell’ONU sul cambiamento climatico).

Il comitato del National Research Council degli Stati Uniti incaricato della valutazione di ricerca, tecnologia e risorse carbonifere ai fini della politica energetica ha osservato nel 2007 che «le attuali stime delle riserve di carbone sono basate su metodi che non sono stati mai più sottoposti a revisione o riesame dopo la loro prima formulazione nel 1974 […] i metodi aggiornati indicano che solo una piccola frazione delle riserve precedentemente stimate è costituita da riserve effettivamente estraibili».

Il gas naturale è ancora abbondante, e ne sono state effettuate grosse scoperte di recente, in particolare in Israele e in Mozambico. Le centrali a gas naturale forniscono il 25 per cento dell’elettricità generata negli Stati Uniti, e la cifra è in aumento. La produzione del gas naturale convenzionale negli Stati Uniti ha toccato il massimo nel 2001, ma le aziende energetiche hanno fatto grossi sforzi per promuovere l’idea che la fatturazione idraulica delle rocce scistose (o scisti bituminosi) condurrà a una vera e propria «età del gas naturale».

Non c’è alcun dubbio sul fatto che le risorse di gas ricavabile dalle rocce scistose negli Stati Uniti sono immense, ma recenti rapporti fanno pensare che sia le riserve che i futuri tassi di produzione siano stati sostanzialmente esagerati. Per siti come gli scisti di Barnes e Fayetteville, dove è possibile studiare una lunga storia di produzione, vi è stato un declino annuo dei tassi di produzione estremamente forte. Il consulente geologico Arthur Barman, direttore della Labyrinth Consulting Services di Sugar Land, nel Texas, ed esperto di livello mondiale dell’estrazione di gas da rocce scistose, ha posto questo declino a livelli compresi tra il 60 e il 90 per cento. Fra i pozzi di estrazione del gas dagli scisti in attività da più di cinque anni, circa il 30 per cento è ormai sub-commerciale in seguito a tale rapido declino, unito al basso prezzo del gas.

Ostacoli alla crescita

Cosa vuol dire tutto questo per l’economia globale, così strettamente legata alle risorse fisiche? Delle 11 recessioni verificatesi negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, 10, fra cui la più recente, sono state precedute da un balzo improvviso dei prezzi del petrolio. Sembra esser chiaro che non è stato solo un problema creditizio, il cosiddetto credit crunch, a dar l’avvio alla recessione del 2008, ma anche l’assai meno pubblicizzata e discussa «stretta» dei prezzi del petrolio. Gli alti prezzi dell’energia pesano sui bilanci delle famiglie e remano contro la ripresa economica. Sia gli Stati Uniti che l’Europa spendono 1 miliardo di dollari al giorno per importare petrolio. Il prezzo medio della benzina negli Stati Uniti è salito dai 75 centesimi al litro del 2010 ai 95 centesimi al litro del 2011. E dato che negli Stati Uniti se ne consumano circa 1,4 miliardi di litri al giorno, il paese ha speso circa 280 milioni di dollari al giorno in più per acquistare benzina, lasciando meno denaro a disposizione per le spese discrezionali.

Un altro efficace esempio dell’effetto della crescita dei prezzi del petrolio lo si può vedere in Italia. Nel 1999, quando il paese ha adottato l’euro, l’attivo commerciale annuo del paese era pari a 22 miliardi di dollari. Da allora, la sua bilancia commerciale è cambiata in modo notevolissimo, e oggi l’Italia ha un passivo di 36 miliardi di dollari. Anche se le cause di questa svolta sono molte, fra cui la crescita delle importazioni dalla Cina, l’aumento del prezzo del petrolio è la più importante di tutte. Malgrado un calo delle importazioni pari a 388.000 barili al giorno rispetto al 1999, l’Italia spende oggi 55 miliardi di dollari all’anno per importare petrolio, rispetto ai 12 miliardi del 1999. La differenza è prossima al corrente deficit della bilancia commerciale. Il prezzo del petrolio ha probabilmente dato un forte contributo alla crisi dell’euro nell’Europa meridionale, i cui paesi dipendono completamente dal petrolio estero.

Malgrado un calo delle importazioni pari a 388.000 barili al giorno rispetto al 1999, l’Italia spende oggi 55 miliardi di dollari all’anno per importare petrolio


L’Agenzia Internazionale per l’Energia ha detto con grande chiarezza che l’economia globale è a rischio quando i prezzi del petrolio sono superiori ai 100 dollari al barile – come sono stati negli ultimi anni, e come certamente continueranno a essere, data la risposa anelastica della produzione globale. Storicamente, il legame tra produzione petrolifera e crescita economica globale è molto stretto.

Se la produzione di petrolio non può crescere, ciò implica che non può crescere neppure l’economia. E questa è una prospettiva così spaventosa che molti hanno semplicemente evitato di prenderla in considerazione. Il Fondo Monetario Internazionale, per esempio, continua a prevedere una crescita economica pari al 4 per cento del prodotto interno lordo per i prossimi 5 anni, vicina ai massimi storici del periodo successivo al 1980. Eppure, per realizzarla ci vorrebbe o un eroico incremento della produzione di petrolio del 3 per cento all’anno, o un aumento dell’efficienza dell’uso del petrolio, o una crescita a maggiore efficienza energetica o una rapida sostituzione del petrolio con altre fonti di combustibili. Economisti e politici discutono continuamente di politiche che portino al ritorno alla crescita economica, ma dato che mancano di riconoscere la centralità del problema dell’alto prezzo dell’energia, non hanno identificato la necessaria soluzione: svezzare la società dai combustibili fossili.

Nel Regno Unito, un gruppo di lavoro costituito da alcuni grandi gruppi (la Industry Taskforce on Peak Oil and Energy Security) e il Department of Energy and Climate Change del governo sono assai consapevoli di questi rischi, e si sono impegnati a lavorare insieme per salvaguardare il paese e la sua economia dalla crescita dei prezzi del petrolio. Il gruppo, formatosi nel 2008, ha messo in guardia la Gran Bretagna dal farsi trovare impreparata dalla stretta petrolifera, e ha detto che le politiche rivolte ad affrontare il «picco petrolifero» devono essere inserite tra quelle prioritarie.

Nel 2011, il suo presidente, John Miles, ha detto: «Dobbiamo definire i rischi e sviluppare ragionevoli piani d’emergenza. Ciò vuol dire ripensare criticamente a ciò che dovremmo fare da subito se sapessimo che nei prossimi cinque anni i prezzi del petrolio si impenneranno». Un analogo riconoscimento congiunto da parte del governo federale e del settore privato è assente negli Stati Uniti, in cui le relative azioni sono state in larga misura intraprese a livello di singolo stato o di singola città. Il governo britannico ha preso con una decisione parlamentare l’impegno a diminuire le emissioni di biossido di carbonio dell’ 80 per cento, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2050. il Congresso degli Stati Uniti ha respinto ogni impegno di questo genere.

Agire più in fretta

Cambiamento climatico e nuovi sviluppi nella produzione di combustibili fossili sono in genere visti come fenomeni separati. Ma in realtà sono strettamente legati. Del rischio di una limitazione dell’offerta di combustibili fossili bisogna certamente tenere conto quando si considerano le incertezze legate ai futuri cambiamenti climatici. Gli approcci di cui c’è bisogno per affrontare gli impatti economici della scarsità di risorse e quelli del cambiamento del clima sono gli stessi: andare oltre la dipendenza dalle fonti energetiche date dai combustibili fossili.

Mentre le implicazioni dei cambiamenti del clima non hanno indotto che a lente risposte politiche, le conseguenze economiche tendono a spingere all’azione a breve termine. Dai dati storici sappiamo che quando i prezzi del petrolio si impennano, l’economia risponde nel giro di un anno. I governi che trascurano di fare i loro piani rispetto al declino della produzione di combustibili fossili subiranno colpi potenzialmente assai seri all’economia ben prima che l’innalzamento del livello dei mari inondi le loro coste o i raccolti agricoli comincino catastroficamente a mancare.

Le soluzioni non hanno nulla di segreto o di misterioso. Globalmente, noi otteniamo 55 x 10 ^ 18 joule di energia utile da 475 x 10 ^ 18 joule di energia primaria ricavata da combustibili fossili, biomasse e centrali nucleari. La differenza è dovuta a perdite energetiche e inefficienze dei processi di trasmissione e conversione. Incrementando l’efficienza, potremmo ottenere la stessa quantità di energia utile bruciando meno combustibile.

Dobbiamo specificare degli obiettivi di conservazione per migliorare l’efficienza dell’uso dell’energia ricavata dai combustibili fossili. Di ciò fa parte tassare il petrolio per tenere alti i prezzi e incoraggiare riduzioni del suo impiego; incoraggiare l’energia nucleare; domandarsi se e come la crescita economica possa andare avanti senza aumenti della disponibilità di combustibili fossili; abbassare i limiti di velocità sulle strade e incoraggiare il trasporto pubblico; o rimodulare gli incentivi fiscali a favore dello sviluppo delle energie rinnovabili.

È una trasformazione che richiederà decenni, quindi bisogna cominciare il più presto possibile. Sottolineare gli imperativi economici a breve termine imposti dai prezzi del petrolio dovrebbe bastare a spingere i governi ad agire subito.


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James Murray lavora alla School of Oceanography dell’Università dello stato di Washington a Seattle, Washington 98195, USA. È stato fondatore e direttore del Program on Climate Change dell’Università dello stato di Washington. David King dirige la Smith School of Enterprise and the Environment dell’Università di Oxford, Oxford OX1 2BQ, ed è chief scientific adviser della banca UBS. È stato chief scientific adviser per il governo britannico nel periodo 2000-2007.
(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature, n.481, 26 gennaio 2012; riproduzione autorizzata)